IL ROC 4026 m - GRAN PARADISO 4061 m |
Su questo sito non poteva non mancare una relazione relativa al Gran
Paradiso. Sul web e sulle guide c'è di tutto e di più, per cui non
mi dliungi sui dettagli tecnici. Due parole le si possono spendere
sul Roc 4026 m, il quattromila di noi canavesani, escluso
dall'elenco ufficiale dei 4000 delle Alpi per una mera formalità. In
realtà, orograficamente parlando, è molto più importante del Gran
Paradiso, essendo un nodo di tre creste, e che divide tre valli, la
valle dell'Orco, la Valsavarenche e la valle di Cogne. La sua salita
non è difficile, a meno che non ci sia del ghiaccio sul ripido
pendio oltre la crepaccia terminale. La difficoltà è sul PD-PD+. Il
Gran Paradiso rimane la mia montagna del cuore, purtroppo sempre
troppo affollata. L'ideale è salire o prestissimo, oppure come
abbiamo fatto noi più sul tardi (non troppo, si è pur sempre su un
ghiacciaio), per non trovare troppo caos sul tratto finale. Spesso
si assiste a delle scene assurde che ben poco hanno (o meglio
avrebbero) a vedere con la montagna.
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14 e 15 luglio 2007. Gita sociale del CAI di Rivarolo, meta Il Roc 4026 m ed il Gran Paradiso 4061 m. Il mio obiettivo principale è il Roc, ma parto con l’idea che, se ci saranno le condizioni, salirò anche al Grampa. Si parte dal canavese alle 12.30 di sabato alle 14.50 si parte stracarichi di materiale per il rifugio Vittorio Emanuele II. Sentiero a me noto e rinoto, in poco più di due ore siamo su. Finalmente ci si toglie il peso dalla schiena, ci si cambia, ci si birra… e si comincia a ragionare… Che ricordi che ho di questi posti. Di quel lontano agosto 95, dove ancora doveva maturare la mia passione per la montagna, ma era prossima a venire, nascendo proprio sotto l’ombra di questa montagna.. Tra amici si scherza, si prepara la salita dell’indomani, si passa il tempo fino alla cena, ottima, abbondante e innaffiata da buon vino. Unico neo è l’eccessivo affollamento del rifugio, cosa a cui sto cominciando a diventare un po allergico… ma tant’è.. Dopo cena relax all’aperto, godendosi un infuocato tramonto, tra un genepì portato su dal buon Alex e una battuta, mi ritiro qualche minuto a pensare sul bordo del lago di Moncorvè, poi ritorno tra gli amici, giusto in tempo per la tisana al genepì, che mi farà dormire benissimo. La sveglia è fissata per le 3, alle 22 passate salgo su, siamo nel camerine proprio sotto il tetto, alto 1.50 metri, e bisogna camminare tutti piegati come Jack Nicholson in Shining… mi manca solo l’ascia e che mi metta ad urlare “Wendyyyy… dove seiii?”. Mi addormento in fretta, nonostante il caldo terribile, e ben presto sono le 3 del mattino. Soliti movimenti impacciati e con gli occhi impastati di sonno, scendo le scale incredibilmente senza rabattarmi per terra, e ci si riunisce tutti per colazione. Fuori dal rifugio c’è un casino pazzesco, e alla partenza, alle 3.45, non nascondo un certo disagio per l’affollamento. Bovinamente ci si incammina in fila indiana alla luce delle frontali, rimango indietro e perdo tutto il mio gruppo nel buio… ricomincio a salire la fina ininterrotta di alpinisti manco fossi in via Roma a Torino il sabato pomeriggio, ritrovo qualcuno dei nostri, ma proseguo per andare a cercare il mio compagno di cordata. Pian piano la luce si fa strada da est, al buio è facile sbagliare strada in questo caos di ometti, tracce, sentierini che si perdono in mmmmille direzioni in queste caotiche pietraie. Praticamente passiamo dentro una cascata d’acqua, poi finalmente arrivano i nevai ed il ghiacciaio. Sono le 5.30 del mattino, è già tutto in fusione. Nelle operazioni di legatura prendo freddo, e per un’ora-due avrò qualche problema di stomaco. Si formano le cordate, si parte. Io con Max parto subito tranquillo, seguendo le decine di persone su per la traccia. Alzandoci di quota, verso i 3400, comincia un fastidioso vento a raffiche che spesso mi sposta e mi sballa il ritmo. Nel mentre si accende l’alba, vedo i primi raggi di sole colpire la vetta del Bianco, poi la Grand Casse, la Tzanteleyna, il Ciarforon.. è giorno pieno ormai, ma noi siamo sempre in ombra. Superiamo la schiena d’asino, litighiamo con un francese impiccione, ed eccoci finalmente al colle della Becca di Moncorvè, a oltre 3800 m di quota. Litighiamo ancora col francese che non capiamo che cacchio voglia dalla nostra vita, e proseguiamo, abbandonando il gregge che sale al Gran Paradiso, per risalire il pendio nevoso dapprima non molto ripido, poi via via più in pendenza che porta al Roc. Alex e Lorenzo passano la terminale più in su, noi decidiamo di affrontarla più direttamente, sembra ben chiusa. Ci avviciniamo alla parte più impegnativa dell’ascensione. Alex e Lorenzo tribolano un po', io e Max decidiamo di salire praticamente per direttissima alle rocce finali. Traversiamo gradinando su pendio nevoso a 40°, poi mentre faccio sicura al compagno (per quanto possibile vista la qualità della neve), lui risale fino alle roccette finali. Quindi è il mio turno. Assicurato dall’alto, decido di salire per super-direttissima, gradinando per la massima pendenza un muro di buona neve a 45-50°, uscendo proprio sulle rocce finali. Pochi passi di I-II e sono in vetta anche io. Sono sul Roc, a 4026 m. Non è un 4000 dell’elenco ufficiale (a mio avviso discutibili i criteri per cui questa vetta, ben distinta dalla pianura e nodo orografico di ben tre creste, e nodo delle valli cogne, valsavarenche e orco, è stata esclusa da tale elenco), ma son contento lo stesso di essere quassù. Il panorama a perdita d’occhio è immenso, e fa effetto essere quassù in 6, mentre sul Grampa c’è la ressa. Sul Roc passiamo più di due ore, tra la posa della campana di vetta, le firme sul nuovo libro, e l’attesa degli altri componenti della gita che prima erano saliti al Grampa. Sono le 10.30 quando ci apprestiamo a scendere. Do uno sguardo verso la MIA montagna, vedo che ci saranno solo più una decina di persone. Tra me e me penso “questa è la volta buona, ci devo provare”. L’amico Alex, compagno di tante e grandi avventure montane, è già d’accordo nell’accompagnarmi su. Scendiamo rapidamente con una doppia, alla finestra del Roc mi lego con Alex e gli dico “oggi o mai più”. Mi sento in formissima, nonostante siano più di due ore che sono oltre i 4000 metri, e partiamo a gran passo. C’è ormai pochissima gente. Superiamo due cordate sul pendio nevoso, poi ecco la cengia nevosa a sinistra della cresta, ed eccoci di fronte al passaggio famigerato. Ci sono due spagnoli un po' indecisi, ci lasciano passare. Ed eccoci qua. Faccio sicura ad Alex, poi è il mio turno. Salgo un gradone, e mi affaccio sul famoso passaggino… sì, è esposto, ma è meno peggio del previsto. C’è un metro dove effettivamente la cengia è larga 15-20 cm, ma subito dopo si allarga. E’ espostissimo. Mentre passo, tiro uno sguardo sotto i miei piedi. 400 m di vuoto mi separano dal Ghiacciaio della Tribolazione. Per le mani non ci sono grandi appigli, più che altro una fessurina di un paio di cm dove infilarle… ma eccomi, l’ultimo gradone che supero poco elegantemente aiutandomi col ginocchio, e sono su…Sono le 11.15. Dio mio che emozione. Ho i brividi, quasi mi scappa una lacrima mentre abbraccio la Madonnina… se penso alle 4 volte che sono venuto su e mai sono riuscito a raggiungerla per l’eccessivo affollamento…. Sono finalmente quassù, sulla mia montagna, questa montagna ai cui piedi è nata questa passione, questa montagna che è stato il primo e unico quattromila di mio papà.. e sono qui anche per lui, che pure non era arrivato alla madonnina perché non se la sentiva.. sono qui anche per Lui. E’ un panorama che ho visto più volte, ma questa volta è diverso, questa volta ha un altro sapore, questa volta è dentro di me, lo sento mio più di quanto non lo sia. Passiamo pochi minuti lassù, un ultimo bacio alla Madonnina, poi è ora di scendere, anche se resterei quassù per sempre… Il gradone finale mi impegna un po', ho le gambe corte e faccio una gran fatica a scenderlo..la cengia non mi impressiona, passo davanti e metto i rinvii dove passo la corda. Quando ne sono fuori mi assicuro e nel contempo faccio sicura ad Alex che mi raggiunge. Ed ecco finite le difficoltà. Raggiungiamo gli altri appena scesi dal Roc, e scendiamo ancora fino alla Becca di Moncorvè. Non la saliamo perché anche se il dislivello è breve, la natura del terreno non pare delle migliori. Il resto è solo discesa… stancante per la neve marcia ed il sole cocente, fuori dal ghiacciaio ci sleghiamo e svestiamo, poi parto per primo in direzione rifugio. Voglio scendere un attimo da solo per sentire mie queste rocce, questi torrenti, questi fiori pionieri che colonizzano le morene, mi guardo intorno, mentre scendo a buon passo, accompagnato dal tintinnio dei moschettoni, e mentre cammino penso, e mi vengono i brividi a pensare quante emozioni mi ha dato e continua a darmi questa passione. E questi luoghi più di altri li sento miei, questa montagna è mia, io sono questa montagna. E’ casa mia. Preso da questi pensieri arrivo quasi senza accorgemene al rifugio, affollato di gente, e ritorno alla realtà… Molti dei nostri sono già qui, quando arrivano Max, Alex e gli altri, una volta cambiati e rinfrescati, ci concediamo un lauto pranzo innaffiato da buon vino. Sono le tre e quarantacinque quando ripartiamo dal Vittorio Emanuele in direzione Pont. La stanchezza comincia a farsi sentire, scendiamo per la bella mulattiera e la temperatura si fa sempre più alta… giunti a Pont, finalmente, non resistiamo alla tentazione di mettere i piedi a mollo…. Meritata birra, per festeggiare l’avventura, e poi tutti a casa, con viaggio di ritorno lungo e pesante anch’esso per via delle code.. Sono le 21.30 quando finalmente varco la porta
di casa. Stanco, quasi distrutto, ma estremamente felice, felice di
aver finalmente realizzato un sogno, che era così vicino ma così
lontano…sembra così assurdo che uno sia salito ben 4 volte lassù
senza mai raggiungerla, fermandosi un metro sotto, scoraggiato e
demoralizzato dalla folla e dalla maleducazione della gente che a
quelle altezze uno non si aspetta di trovare..eppure è così,
arrivavo sempre su nei momenti sbagliati… La gioia e l’emozione di
aver raggiunto la Madonnina del Gran Paradiso in un momento di
tranquillità così raro su quella vetta rimarrà davvero
indimenticabile. Ho passato più di tre ore oltre i 4000 metri, e
ancora una volta posso dire che a quell’altezza “si respira un’aria
particolare”. Ma questa volta lo era ancora di più. Mi sentivo
davvero a casa, lassù, a 4061 m di quota. Roberto Maruzzo-socio CAI-Lanzo |
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